Marcus Miller (New York, 1959) ha raccontato anni fa durante una conferenza-concerto alla Steinhardt University di New York che in fondo solo il musicista avrebbe potuto fare. Nato a Brooklyn, con un padre pianista classico e un cugino come Wynton Kelly (sublime pianista blues e jazz), non aveva alternative,
solo quella era la sua strada, anche perché si trasferì bambino nel Queens: «quando avevo dieci anni ci siamo trasferiti, un posto stroardinario per la musica. Per come è fatta N.Y. non ogni zona è dotata di case con seminterrati, ma il Queens lo era e quando ero ragazzino i genitori, anche per sapere cosa facevano, incentivavano i figli con un po’ di passione per la musica a scendere giù, metteresì alla prova con gli amici. E così avevamo questa cultura da seminterrato per cui se facevi un giro fra i palazzi sentivi quello che facevano gli altri, lo riportavi agli amici e si tentava di rifare quelle cose funk. Era una specie di gara ma in un gran bell’ambiente. Ho avuto come compagno di classe Kenny Washington, che è un batterista strepitoso. Fu lui a dirmi a un certo punto: amico oltre al funk devi suonare il jazz…». A 21 anni Marcus Miller aveva già raggiunto la vetta visto che aveva iniziato a collaborare con Miles Davis. Il caratteristico suono del basso di Miller può essere ascoltato in un incredibile catalogo di successi tra cui Just The Two Of Us di Bill Withers, Luther Vandross, Never Too Much, Jump To It di Aretha Franklin, Gz and Hustlas di Snoop Dogg, Can’t Knock the Hustle di Jay-Z, All Night di Beyoncé. Fra le sue collaborazioni bisogna citare almeno quelle con Chaka Khan, Herbie Hancock, Eric Clapton, George Benson, Elton John e Bryan Ferry. Con il suo stile, una combinazione unica di funk, groove, soul e spaventosa abilità tecnica, Miller è oggi considerato uno dei bassisti più importanti della storia del jazz, dell’R & B, della fusion e del soul.
10 cose su Marcus Miller che è il caso di ricordare
1) Nel 1978 Marcus Miller con il flautista Dave Valentin, il sassofonista Sadao Watanabe, la cantante Angela Bofill diviene l’artista di punta dell’etichetta GRP di Dave Grusin (notevole tastierista) e Larry Rosen. La missione è semplice: sviluppare e imporre la fusion.
2) A fine anni Ottanta Miles Davis sceglie di utilizzare in modo massiccio i sintetizzatori e nel fondamentale ruolo di compositore, arrangiatore, programmatore c’è Marcus Miller. Gli album in questione sono Tutu (1986), Siesta (1987), Amandla (1989). Un viaggio nell’universo di Gil Evans. In Siesta si legge: This album is dedicated to Gil Evans The Master.
3) Tutu deve moltissimo a Marcus Miller, bassista e polistrumentista in stato di grazia che produce e prepara quasi tutta la musica su cui Davis sovraincise. DownBeat ha calcolato che il repertorio live della band del trombettista contasse oltre 70 brani ed era noto che Davis, se gli fosse stato possibile, avrebbe sempre registrato dal vivo. Solo dei musicisti mostruosi potevano tenere questa modalità di lavoro. Da notare che Miller 25 anni dopo rilegge in modo sistematico quanto già fatto sentire nei suoi live e registra Tutu Revisited (2011). Una scaletta arricchita: agli otto brani originali si affiancano In A Sentimental Mood; Perfect Way degli Scritti Politti, fusa con Full Nelson; e So What che prende il timone dall’abbrivio di Human Nature. Christian Scott, al quale è affidato l’ingrato compito di suonare la tromba, non cerca impossibili confronti, così come l’intera struttura del disco, grondante groove e soul da ogni linea melodica. Capolavoro.
4) Star People, due tracce dal vivo e quattro in studio, fra il 1982 e il 1983, mostra Miles Davis nella sua nuova fase elettrica. Nel blues che dà il titolo all’album Marcus Miller è formidabile. Sono della partita anche John Scofield, Al Foster e il produttore Teo Macero.
5) Uno degli incontri più importanti nella carriera di Marcus Miller è quello con Wayne Shorter. La loro collaborazione si è sviluppata soprattutto negli anni Novanta, in occasione dell’album High Life (1995) e con il tour mondiale in omaggio a Miles Davis dove c’erano anche Herbie Hancock, Ron Carter, Tony Williams, Wallace Roney.
6) Nel 2006 la rivista Bass Player, organizzando un live, aiuta a mettere in piedi il super gruppo S.M.V. Dopo un memorabile concerto neyorchese Stanley Clarke, Marcus Miller e Victor Wooten decidono di approfondire la collaborazione. Nel 2008 vede la luce l’album Thunder, segue un tour mondiale di enorme successo.
7) Nel 2015 esce Afrodeezia, album che nasce dopo un viaggio in Africa, con il patrocinio Dell’Unesco. Per portare l’attenzione su vecchie e nuove schiavitù: «un tempo la nostra musica era la celebrazione della cultura nera americana, oggi i problemi sono più diffusi. Resto comunque convinto che la musica sia un modo incredibile e potente per fare arrivare un messaggio».
8) Laid Black (2018), è un album che vuole fare il punto sulla musica nera. Partendo da sonorità popolari Marcus Miller le rivoluziona interpretandole in chiave jazz. Un affascinante viaggio fra gli stili urbani – hip-hop, trap, soul, funk, r&b e jazz – con collaborazioni di Trombone Shorty, Take 6, Jonathan Butler e Selah Sue. Il titolo è un gioco di parole tra black, come la musica che lo ha ispirato, e l’espressione laid back, che significa alla mano, rilassato.
9) La Fender ha una linea di bassi Marcus Miller Signature: «tutte le parti in causa lavorano insieme per costruire un ottimo prodotto: i pickup sono i microfoni dello strumento, i legni del corpo possono portare suoni diversi, ma per me la cosa essenziale è la tastiera, il manico. Ed è proprio al manico che faccio caso da subito: mi ci devo sentire a mio agio, vedere che le dita si muovono bene».
10) «Il jazz è un posto unico, dove esiste una tradizione che si ha la possibilità di reinterpretare continuamente, ed è importante rispettare questo dato: devi arrivare a spiegare alla gente chi sei veramente, ma consentendo a tutti di riconoscersi in qualcosa di noto. Prendi Summertime: probabilmente gli ascoltatori avranno sentito, attraverso una conoscenza pregressa, di trovarsi di fronte a una versione differente dalle altre, in cui chiaramente era distinguibile la mia personalità. Suonare uno standard jazz, però, resta un modo per rendere un omaggio alle tradizioni e onorare i grandi compositori del passato». (tratto da una intervista a DownBeat del 4-2018).